L'Italia chiede garanzie sulle tutele dei vini che prendono la denominazione dal vitigno e, al momento, le ottiene.
Anche se l'auspicio è passare dal detto allo scritto. Il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina, a Bruxelles lunedì, ha domandato e avuto dal commissario europeo all'agricoltura Phil Hogan rassicurazioni circa le intenzioni dell'Esecutivo Ue sulla paventata liberalizzazione nell'uso dei nomi dei vini che prendono la denominazione dal vitigno e non dal luogo di produzione, come per esempio Vermentino o Lambrusco. L'esito di una tale decisione sarebbe la possibilità per altri produttori europei, gli spagnoli in prima fila, di usare liberamente denominazioni di vitigni italiani noti in tutto il mondo. La storia del Lambrusco è esemplificativa di un'industria che si sviluppa e migliora la qualità del prodotto proprio a partire da una riserva sul nome. Gli interventi cui sta pensando l'esecutivo Ue «potrebbero avere un impatto fortemente negativo sui nostri produttori,, ha detto Martina a Hogan, «e su questo punto non siamo disposti a nessuna concessione». «La Commissione non ha alcuna intenzione di andare contro le sensibilità del settore vitivinicolo italiano», spiega il portavoce dellEsecutivo Ue per l'agricoltura Daniel Rosario, «e non ci saranno conseguenze per i nomi già protetti». Il problema perd non è la tutela che già c'è, ma i nuovi nomi che potrebbero essere autorizzati. Dopo le rassicurazioni, ricorda l'eurodeputato Paolo De Castro, Hogan dovrebbe dare «le necessarie disposizioni affinché venga ritirata la bozza sulla liberalizzazione».
autore: Angelo Di Mambro, Bruxelles
fonte: ItaliaOggi
Il no alla deregulation sui vitigni Ue ribadito dalla filiera, con una nota congiunta di Assoenologi, Alleanza delle Cooperative Agroalimentari, Cia, Confagricoltura, Federdoc, Federvini e Unione Italiana Vini (Uiv).
“La filiera del vino italiana ha espresso con forza il proprio no ad ogni ipotesi di liberalizzazione delle etichette dei vini. Le denominazioni non vanno toccate. La contrarietà della filiera, ma anche del governo, è stata ribadita oggi dal ministro per le Politiche agricole Martina al commissario UE Hogan”. Lo hanno sottolineato Assoenologi, Alleanza delle Cooperative Agroalimentari, Cia, Confagricoltura, Federdoc, Federvini e Unione Italiana Vini (Uiv) in una nota congiunta.
“Ogni ipotesi di revisione dell’attuale quadro normativo di riferimento va al di là delle competenze attribuite alla Commissione e - ha sottolineato la filiera del vino italiana - mette in discussione quel delicato equilibrio politico raggiunto in occasione della riforma dell’Ocm Vino del 2008”.
La filiera ha quindi messo in guardia: “se la Commissione decidesse di procedere secondo le ipotesi di liberalizzazione annunciate sarebbe possibile, per un qualsiasi vino europeo, riportare in etichetta nomi quali Aglianico, Barbera, Brachetto, Cortese, Fiano, Lambrusco, Greco, Nebbiolo, Picolit, Primitivo, Rossese, Sangiovese, Teroldego, Verdicchio, Vermentino o Vernaccia”.
“Le denominazioni di origine sono parte integrante di rinomate Dop o Igp registrate già a partire dalla metà degli anni Settanta e che come tali vanno tutelate, anche contro fenomeni di concorrenza sleale tra gli stessi produttori europei, non certo liberalizzate - ha concluso la filiera del vino - sono patrimonio indiscusso della nostra vitivinicoltura, del nostro enoturismo, della nostra identità enologica e culturale”.
Fonte: Winenews
In Usa trend come quello hipster spingono i vini autoctoni
Va bene assecondare le tendenze emergenti tra i Millennials, ma guai a dimenticarsi dei vini classici. Senza di quelli non c'è mercato che tenga, nemmeno negli Usa, dove nei primi 6 mesi del 2015 !'export delle bottiglie italiane è cresciuto del 19% raggiungendo quota 1,4 miliardi di euro. A mettere sull'attenti i produttori è Giammario Villa, Master Taster e docente per Ucla (University of California Los Angeles), oltre che consigliere della North American Sommelier Association. «Se da un lato negli Stati Uniti abbiamo consumatori più educati e adulti che prediligono i classici e sono orientati verso tipologie come i Super Tuscany e i vini californiani della Napa Valley», spiega, «dall'altro abbiamo i Millennials che invece preferiscono vini semplici, immediati e gradevoli, di fascia di prezzo più contenuta, in particolare vini frizzanti». Da qui la possibilità di «portare dinamicità nel mercato», sulla spinta di nuove mode come quella hip-ster «alla ricerca di qualcosa di nuovo». Tale «amore sfrenato per la diversità» secondo Villa è riscontrabile «nelle carte dei vini dei nuovi wine bar che stanno aprendo in tutti gli Stati Uniti», dove possono trovare spazio «i vitigni autoctoni meno famosi e le case vinicole italiane di nicchia». C'è pert) un rischio. «Una generazione che non conosce i "classici pub essere imprevedibile» avverte Villa, «mentre per apprezzare le novità non si pub fare a meno della conoscenza dei vini tradizionali». E questo perché «è necessario sviluppare nel consumatore un canone di estetica del gusto che gli permetta di cogliere le diversità stilistiche». Per superare l'ostacolo delle dimensioni aziendali ridotte, Villa suggerisce ai produttori italiani sia di «sfruttare la sensibilità dei buyer costruita dalle grandi aziende», sia di percorrere la strada dell'aggregazione. Per vendere vino in Usa occorrono infatti investimenti; «almeno 60/70 mila dollari all'anno più spese di viaggio e di pr» calcola l'esperto, senza dimenticare «l'importanza di dotarsi di un brand ambassador in grado di comunicare con tutti gli stakeholder,. Per sobbarcarsi certi costi, diviene pertanto inevitabile aggregare diverse realtà imprenditoriali senza pert) limitarsi ai soli Consorzi ma puntando sui network di produttori. «Si tratta», chiosa Villa, «di un concetto più trasversale e dinamico, riguarda un gruppo di aziende che realizzano prodotti diversi (quindi non in concorrenza tra loro) ma che sono espressione di un territorio e di una cultura. Tali network possono essere temporanei o permanenti, privati o a partecipazione pubblica».
fonte: ItaliaOggi